La Roma di Fonseca può avere un futuro

Tornando agli albori di questa stagione, probabilmente è ancora fresco  negli occhi di tutti il ricordo di quei primi giorni di giugno, in cui nell’ambiente giallorosso si respirava forte aria di rivoluzione, di ricostruzione. E fu proprio in quegli scorci di inizio estate che arrivò l’ufficialità del nuovo allenatore della Roma: sbarcò nella capitale Paulo Fonsceca, il quale da tecnico straniero ancora non di certo sulla bocca di tutti, nonostante un rinomato calcio propositivo,  sembrava portarsi dietro molta curiosità e allo stesso tempo un alone di mistero. Lo stesso che forse lo caratterizza da quando, nel 2017 alla guida dello Shakhtar Donetsk, si presentò in conferenza stampa con il volto coperto. Mascherato da Zorro.

Shakhtar Donetsk, appunto. La precedente esperienza del tecnico portoghese, capace in tre anni alla guida della formazione arancionera di conquistare tre campionati, tre coppe nazionali e una supercoppa d’Ucraina. Ben figurando, tra l’altro, anche in ambito europeo, raggiungendo nella stagione 17/18 gli ottavi di finale di Champions League proprio contro la Roma di Di Francesco e fermandosi invece lo scorso anno alla fase a gironi, alle spalle di Manchester City e Lione in un gruppo non scontatissimo che comprendeva anche l’Hoffenheim.

Ma il calcio italiano è differente. Per impatto, per filosofia e stile di gioco, per pressioni psicologiche. Queste le prime incognite piombate attorno al mondo di Paulo Fonseca dal momento dell’arrivo nel Bel Paese. E se ci si aspettavano in breve tempo (magari nei primi sei mesi) delle dimostrazioni per giudicare il suo lavoro, il bilancio è risultato finora abbastanza convincente. A tratti molto. Perché – puramente a livello di risultati – la Roma allo stato attuale delle cose, con una partita disputata in più,  si trova al quinto posto alle spalle dell’Atalanta (45 punti contro 48 della Dea) con l’obiettivo di piazzamento in zona Champions League ancora vivo se si dovesse ricominciare a giocare, e inoltre pienamente in corsa per quanto riguarda il cammino in Europa League, nell’attesa attesa di conoscere che destino avranno gli ottavi contro il Siviglia.

Fonseca travestito da Zorro in una conferenza del 2017 alla guida dello Shakhtar Donetsk, in seguito a un scommessa vinta grazie al successo sul Manchester City di Guardiola.

Ricostruendo un po’ il percorso, Fonseca è apparso da subito eccezionalmente convinto delle sue idee che si poggiano su un 4-2-3-1 molto dinamico, supportato in maniera corposa dagli innesti estivi sul mercato (viene da pensare per esempio al duttile Veretout, all’ordinato Diawara, al propositivo Spinazzola o al plasmabile Mancini) da parte della società, nello specifico guidata da Petrachi, pienamente  in linea con la filosofia calcistica (e tattica) del nuovo allenatore scelto. Senza dimenticare la permanenza di Edin Dzeko, che si dice sia stato convinto a restare proprio dal progetto prospettatogli da Fonseca.

Il problema più significativo della prima metà di stagione giallorossa è risultato senza dubbio quello legato ai tanti, molteplici problemi fisici dei componenti della rosa. Per dare un’idea si sono sovrapposti in infermeria, a cavallo tra ottobre e novembre, Kluivert, Diawara, Cristante, Pastore, Spinazzola, Mirante, Mkhitaryan, Juan Jesus, Zappacosta, Cetin, Under e Pellegrini; fino ad arrivare al grave infortunio al legamento crociato anteriore per Nicolò Zaniolo nel match casalingo di gennaio contro la Juventus. Una situazione travagliata, che ha limitato non poco scelte o eventuali esperimenti dell’ex tecnico di Porto e Braga. Emergenza però in cui lo stesso Fonseca ha compattato l’ambiente non concedendo nessun alibi ai suoi giocatori ed è riuscito comunque a trovare soluzioni alternative, buona continuità di rendimento e soprattutto risultati, fornendo dimostrazione di ottima mentalità  e spiccata abilità nel gestire il gruppo (sostanzialmente senza veri leader, considerato l’addio a maggio di De Rossi) al di là delle competenze strettamente di campo che gli erano già state riconosciute nel corso degli anni.

Proprio parlando di campo, quali sono i principi che hanno caratterizzato la Roma in questa stagione?

Innanzitutto è emersa una grande organizzazione e una precisa definizione dei compiti in tutte le fasi di gioco. Se all’attaccante centrale (spesso Dzeko e occasionalmente Kalinic) oltre ai gol vengono chiesti continui movimenti a ricerca del pallone, costante aiuto e riferimento per lo sviluppo della manovra, appoggi precisi e anche suggerimenti chiave, i due esterni offensivi – quasi sempre a piede invertito, nonostante siano sensibilmente meno brevilinei di quelli a disposizione nello Shakhtar (Marlos, Taison o Bernard) – hanno invece il dovere di convergere verso l’interno del campo per creare superiorità numerica (la Roma è comunque seconda in Serie A per dribbling a partita: 12.4 contro i 13.3 del Sassuolo. Dati whoscored.com), cercando spesso anche la conclusione oltre a favorire in questo modo l’avanzata degli esterni bassi con i quali si innescano delle catene d’attacco.

(Credits: Alesia) Roma-Napoli 2-1. Qui è evidentissimo il taglio verso l’interno del campo di Zaniolo, che favorisce così l’avanzata in progressione del terzino di parte (Spinazzola) con cui si innesta la famigerata ”catena di gioco”.

Ai due giocatori della mediana vengono richiesti movimenti differenti e interscambiabili: uno deve costantemente abbassarsi in mezzo ai difensori centrali in costruzione creando superiorità e permettendo un avvio di azione arioso (come accaduto spesso a Diawara o a Mancini, quando impiegato a centrocampo), mentre l’altro deve transitare in zone leggermente più avanzate per garantire un successivo sviluppo della manovra, quasi sulla stessa linea del trequartista centrale, singolo che invece deve offrire l’ultimo passaggio chiave (da qui gli 8 assist di Lorenzo Pellegrini in stagione).

(Credits: Alesia) Roma-Milan 2-1. Mancini, in questa circostanza schierato mediano, si inserisce all’interno dello spazio tra i due centrali mandando a vuoto il pressing di un singolo giocatore rossonero e avviando l’azione con semplicità
(Credits: Alesia) La posizione di Veretout (il secondo mediano) che si alza in verticale su Manicini, sulla stessa linea per esempio di Zaniolo, l’esterno offensivo che viene a cercare il pallone per accendere l’azione offensiva della Roma.

A terzini di grande spinta ma anche di buon fisico e attenzione alla fase difensiva – ecco spiegato il motivo dello scarso gradimento per Florenzi in quel ruolo da parte di Fonseca – e a difensori centrali abbastanza abili nella prima uscita del pallone, necessariamente a loro agio nella difesa alta del campo, si aggiunge un portiere (Pau Lopez) abituato sin dai tempi del Betis di Quique Setien ad avviare l’azione del basso e soprattutto palla a terra, con l’obiettivo di mandare a vuoto il pressing avversario.

Tutto ciò, condensato nel corso della partita, va a delineare una fase offensiva e di costruzione molto produttiva, tant’è che per mole di gioco o per la disposizione avanzata e coinvolgente di praticamente tutti gli effettivi la Roma è forse l’unica squadra che,  in parte e a tratti, ricorda l’Atalanta di Giampiero Gasperini, quando sembra davvero attaccare senza badare a possibili ripartenze avversarie o a ipotetiche transizioni negative improvvise. E i dati, parzialmente, lo confermano: perché la squadra di Fonseca è subito alle spalle della Dea per percentuale di azioni nel terzo offensivo (31% contro 32% dei bergamaschi) e quarta per tiri totali a partita (17.3), dietro a Juventus, Napoli e, guarda caso, ancora Atalanta (20.1).

(Credits: Alesia) Qui la Roma, nel derby contro la Lazio, cerca di portare molti uomini a sostegno della manovra. In questo specifico frame è evidenziato il cambio lato sull’esterno sinistro basso opposto (in questo caso Spinazzola), che spesso abbiamo visto mettere in pratica dall’Atalanta di Gasperini, per esempio, da Hateboer a Gosens.

La quantità di uomini portati a sostegno della fase d’attacco, la presenza nella metà campo avversario e l’aggressione alta generano infatti, quasi inevitabilmente, molteplici e costanti opportunità di creare i presupposti per segnare. Non a caso, ancora una volta, i gol realizzati in Serie A dai giallorossi sono 51, numero che rappresenta comodamente il terzo miglior attacco del nostro campionato.

Inoltre, in certi momenti della stagione (o ancor meglio, in alcune singole gare) la Roma ha dimostrato in modo convincente di saper alternare a piacimento e al bisogno il pressing avanzato, la fase di attesa sulla trequarti, e quella di impostazione ragionata o il contropiede diretto quando in possesso della sfera. Interessante il dato che riguarda i duelli aerei vinti xMatch (55.5%, terza in A), ovviamente avvalorato in quanto derivante da duelli su rilanci lunghi avversari in fase di pressione alta romanista, piuttosto che da quelli “obbligati” a difesa piazzata e a protezione dell’area di rigore sui traversoni alti. Situazione che la Roma interpreta, un po’ per volontà e un po’ per carenze, davvero raramente e non benissimo durante la gara.

(Credits: Alesia) Roma-Juventus 1-2. Quando la Roma alza il pressing ha le idee estremamente chiare sulle posizioni da coprire. Nel match di gennaio contro i bianconeri, nonostante la sconfitta, Fonseca ha schermato molto bene l’avvio azione delle squadra di Sarri avvalendosi di scalate e marcature ben preparate.

A questo proposito, riguardano proprio l’aspetto difensivo e il livello di concentrazione le principali criticità che abbiamo potuto individuare in questi sette mesi all’interno dell’impianto di gioco della Roma fonsechiana. E d’altronde le sconfitte contro Torino e Juventus di inizio 2020 oltre a quelle più recenti al cospetto di Sassuolo e Bologna, avendo negli occhi il modo in cui sono arrivate, non fanno altro che confermarlo. Le problematiche più significative hanno riguardato  – come detto – sia le fasi di difesa piazzata (in questo senso influiscono proprio le caratteristiche dei difensori: sia Smalling che Mancini sono molto dinamici e abbastanza rapidi individualmente, ma hanno qualche carenza nel posizionamento e nella lucidità tattica nel contesto dell’intero blocco difensivo) sia la pressione forsennata di alcune avversarie nel corso della stagione (ad esempio il Sassuolo, o la Juventus nei primi 20 minuti all’Olimpico), oltre alle circostanze che si sono presentate in quelle sfide in cui, a fronte di una giornata dettata da scarsa verve offensiva giallorossa, le opponenti hanno cercato di contrastare l’atteggiamento tattico di Fonseca servendosi di attese e successivamente di contrattacchi taglienti, rapidi ma soprattutto efficaci (sconfitte casalinghe contro Torino e Bologna, 2-0 di novembre subito in casa del Parma).

(Credits: Alesia) La difficoltà in transizione negativa della Roma, che concede tempo e spazio agli avversari per creare situazioni di pericolo.
(Credits: Alesia) Con la palla di Ruiz per Lozano, il Napoli trova la possibilità di attaccare l’area di rigore in superiorità numerica: non a caso da qui arriverà il gol siglato da Milik.

Andando a redigere però un bilancio sì complessivo ma comunque parziale a causa dell’interruzione della stagione, il campionato interpretato finora ha avuto modo di farci conoscere un Paulo Fonseca che ha saputo semplicemente adattarsi a nuove filosofie e alle negatività che spesso ne hanno condizionato l’integrità della rosa, gestendo in modo  ottimamente autorevole oltre al gruppo, anche i rapporti con la piazza romanista in un ambiente da sempre enigmatico. Aspetto di certo non scontato per un allenatore arrivato in Italia da meno di un anno.

Lasciandoci intravedere anche alcune inevitabili difficoltà, ma dimostrando di poter offrire ampi e importanti margini di miglioramento, la ventata di freschezza portata da Fonseca rappresenta un’ottima scoperta per il movimento italiano, oltre che l’ennesima dimostrazione della necessità tanto di tecnici italiani quanto di proposte, correnti di pensiero e idee tattiche provenienti dall’estero. Nell’ottica di filosofie di gioco sempre più propositive o articolate e, soprattutto, orientate allo sviluppo costante del nostro calcio.